I frisceu, la farinata, la focaccia… con il suo sapore delicato l’olio ligure ha reso unica la cucina genovese. L’olio ligure ha note di gusto che vanno dai fiori di campo alla frutta secca e, per la sua eleganza, può essere usato anche come ingrediente di guarnizione a fine cottura. Ma l’olio in Liguria non ha solo influenzato la cultura gastronomica locale, ha anche dato una forte impronta al territorio.
La bellezza del contrasto tra l’azzurro del mare e il verde lucente degli ulivi che si affacciano a picco sulla costa rischia di farci dimenticare il lavoro, la fatica e il tempo che gli abitanti della Liguria hanno impiegato per creare questo paesaggio da sogno. Gli uliveti liguri si sviluppano principalmente in fasce di terra che si inerpicano su dei pendii. Nei secoli è stato dunque necessario inventare, letteralmente, pietra su pietra e zolla su zolla, un terreno coltivabile dove prima non c’era.
Ciò che segue sono appunti sulla cultura materiale del ciclo dell’olio ligure, dalla sistemazione dell’uliveto fino alla trasformazione dell’oliva nel frantoio. Alcune lavorazioni tradizionali si sono perse mentre altre rimangono ancora vive grazie alla passione dei coltivatori e dei frantoi artigianali locali.
Breve storia dell’olio ligure
Secondo Strabone, storico vissuto al tempo di Augusto, i liguri si rifornivano di olio importandolo da altre regioni. Si è ipotizzato allora che la coltura dell’ulivo si sia sviluppata in età più tarda, nel Medioevo, con l’introduzione di questa coltivazione da parte dei monaci benedettini. Proprio a questo ordine monastico si attribuisce il merito di aver selezionato la cultivar di oliva “taggiasca”, che oggi caratterizza la Riviera di Ponente.
La vera espansione dell’ulivo in Liguria si ebbe però solo a partire dal XVI-XVII secolo, quando si iniziò a privilegiare questa coltura a discapito di altre storiche come la vite, il fico e quelle arboree. Così l’ulivo diventa per almeno 200-300 anni la coltura egemone nella regione. Dopo un primo picco tra il 1550 e il 1600, ci sarà un ulteriore aumento di produzione nel XVIII secolo. L’olio ligure veniva acquistato dalla città di Genova, sia per il mercato interno che per esportazione: ad esempio, l’olio ligure rappresentava nel 1700 il 30% dell’olio utilizzato in Provenza, dove esisteva un’importante l’industria del sapone.
Dopo questo periodo avviene una crisi. A causa dell’aumento dei costi del lavoro nella seconda metà del 1800 la produzione dell’olio non rappresenta più un’impresa redditizia. La coltura viene abbandonata: sostituita con altre oppure le piante vengono abbattute e utilizzate per fare legna.
Fortunatamente la tradizione dell’olio in Liguria non è mai scomparsa del tutto e negli ultimi anni c’è stata anzi una rinascita. Nel 2011 per l’olio ligure è stata riconosciuta a livello europeo la denominazione d’origine protetta “Riviera Ligure”.
Come nasceva un uliveto
Ad oggi la coltura dell’ulivo è presente in tutto l’arco marittimo della Liguria fino a circa 500 metri sul livello del mare. Da quel punto in poi le condizioni atmosferiche dell’entroterra appenninico, con gelate e nebbie, non permettono la crescita ottimale dell’albero. Tuttavia, come abbiamo già sottolineato, per quanto l’ulivo caratterizzi a giorni nostri parte della costa ligure, la sua grande diffusione è solo “recente”, dalla metà del 1500 in poi. In questo periodo i contadini locali hanno dato vita a un’impresa ingegneristica di grande fatica. All’epoca richiedeva fino a due settimane di lavoro per ogni ulivo, tra la preparazione del terreno e il trapianto della pianta, considerando inoltre che per fascia solitamente la “densità di popolazione” arrivava a 500 alberi per ettaro.
Immaginiamo ora di essere dei contadini dell’epoca e di dover piantare il nostro primo ulivo.
Un pendio accidentato e con pietre, come è nel caso dei terreni liguri, deve essere sistemato preliminarmente rendendolo pianeggiante, costruendo le caratteristiche “fasce”. Per fare una “fascia” è necessario erigere subito a valle un muro a secco con delle pietre grosse. Solitamente si usavano le stesse pietre che si toglievano dal suolo quando lo si bonificava. A questo punto si può cominciare con il riempimento. Aiutandosi con zappe e picconi si spiana il terreno, si tolgono ancora le pietre rimaste che potranno essere utilizzate per fare altri muretti di sostegno o costruzioni. Infine si possono fare le buche in cui sistemare gli ulivi, che saranno poi concimati (ogni anno, in autunno). Tuttavia, se si trattava di un’area già dedicata a un’altra coltura, come era molto probabile, era necessario dedicarsi prima a un altro lavoro, dissodando il terreno e rimuovendo in profondità le piante presenti.
Quando l’ulivo è ancora giovane deve essere sostenuto con un palo che faccia da tutore. In questo modo si evita che venga danneggiato dal vento o da altre avversità atmosferiche. L’albero giovane soffre soprattutto la siccità e per questo motivo si potevano scavare delle fosse intorno alle radici dove si raccoglieva l’acqua che manteneva umida la terra.
Si avrà un ulivo pronto a dare i suoi frutti solo dopo alcuni anni.
La raccolta delle olive
Continuiamo la nostra storia. Ipotizziamo che l’ulivo che abbiamo piantato nel precedente paragrafo sia pronto per produrre le sue olive. Ma come avveniva la cura dell’albero durante le stagioni e poi la raccolta in autunno?
Potatura e trattamenti sono essenziali ogni anno per il mantenere sano l’ulivo. Le tecniche cambiavano da zona a zona ma anche solo da pianta a pianta in base alle esigenze. Comunque, il ciclo annuale dell’ulivo prevede che fiorisca a primavera e, dopo circa due mesi, inizino a comparire le olive. Queste sono prima dei minuscoli frutti verdi che poi piano piano si ingrandiscono e cambiano il colore della buccia, sempre più scura con l’arrivo dell’autunno, con tonalità che passano dal nero al violaceo. Quando anche la polpa ha finalmente lo stesso colore della buccia, allora è giunto il momento della raccolta, che durerà alcuni mesi, in più riprese a seconda della diversa maturazione dei frutti; si inizia in autunno e si può protrarre anche fino a gennaio.
I metodi tradizionali di raccolta erano diversi. Andavano dalla raccolta a terra dei frutti maturi caduti spontaneamente, alla scuotitura della chioma dell’albero per far cadere le olive, fino alla loro raccolta a mano quando erano ancora sulla pianta. Inoltre, all’epoca, le famiglie che non avevano abbastanza manodopera durante la raccolta provvedevano anche a tagliare i rami, facendo in questo modo contemporaneamente anche la potatura. Molta della manodopera arrivava dall’entroterra appenninico se non fin dal Piemonte.
Al frantoio
I frantoi storici ancora attivi sono dei veri musei di cultura materiale locale che ci permettono di vedere come erano fatti secoli fa e come lavoravano.
La parte fissa del frantoio consiste in una vasca di pietra, i cui bordi si differenziano per tipo e altezza in base alla zona. Questa parte chiamata “pilla”/”pila” è dove vengono versate dentro le olive per essere schiacciate da una macina verticale in pietra che gira. Storicamente poteva essere azionata da un animale da lavoro, come l’asino o il mulo, oppure era fatta girare dall’acqua.
Quando le olive sono state schiacciate nel frantoio, questa pasta è messa dentro ai fiscoli, che sono dei recipienti fatti in corda a maglia larga e con un foro nel fondo, e che vengono impilati uno sopra l’altro per essere poi messi sotto il torchio così da spremere la pasta di olive. E dopo tanto sforzo abbiamo finalmente il nostro olio!
Si ringraziano per le foto: Azienda Agricola Belollari e Azienda Agricola Dinoabbo